Oggi 22 maggio è morto Alessandro Manzoni.

A 150 anni dalla sua morte il professor G.G. Montevenere ci racconta l’ultimo giorno dello scrittore.

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Si era di maggio. Milano era più bella che mai e lui stava per morire. Era vecchio, rassegnato. Aveva vissuto come aveva voluto e nulla gli era stato risparmiato dalla varietà dell’esistenza. Da mesi era pressoché in stato semicomatoso, ma nei saltuari momenti di lucidità soffriva dentro di sé nel sentire vicino il Gran Momento. Da sempre la morte lo aveva colpito negli affetti: ci era abituato. Infatti non era l'idea trapasso ad angosciarlo: erano i conti da fare prima di lasciare il corpo. 

Alessandro Manzoni.

Mentre tentava il conto del dato e del ricevuto, la sua grande casa era in silenzio, il che lo inquietava. Come un segno dal Cielo, la quiete fu rotta da un chiassare da maleducati nella via fuori dalla finestra del suo palazzo di via Morone 1. Era il consueto gruppo degli Scapigliati diretti a Brera ed alle sue malfamate stradette.

<< O Arrighi: non si decide a crepare il vecchio fossile? >> si informò ad altissima voce un giovinastro dalla faccia da scampato alla forca.

<< Dovrà ben lasciarci il campo libero, o Boito mio. >> rispose un altro con la faccia da tisico.

Poi, dopo altri commenti da mascalzoni se ne andarono all’osteria Fiori Oscuri di Brera.

Intanto nel palazzo s'avvicendavano accademici ed uomini politici. Chiedevano sottovoce notizie dell’infermo. Ancora più sottovoce si rispondeva loro che non c’erano novità. La cameriera, sinceramente affannata dalla disperazione, ricominciò ad andare e veniva dalla camera del moribondo.

<< Don Lisander, per piaseè, che el me fagaa no di brutt schers. >> implorava la donna.

Lui non rispose. Da quasi un mese non riusciva più a capire bene chi fosse lui stesso. Così non rispondeva più a nessuno. Non parlava più a nessuno. Solo ai molti fantasmi, spessissimo da lui in visita privata, concedeva accennati saluti e sintetici colloqui.

La Divina Provvidenza era stata distratta lo scorso febbraio, proprio il giorno dell'Epifania. Non lo aveva salvato dallo scivolare sul ghiaccio. Non lo aveva salvato da una brutta frattura sulla fronte. Non gli aveva tolto la lunga agonia dentro una vergognosa catatonia. E trovava diabolico l'esser caduto pochi minuti dopo l'aver assistito alla Santa Messa! Forse, allora, avevano ragione gli integralisti cattolici, capeggiati da quel don Bosco, da quel don Albertario, a mostrarlo come un cattolico inquinato dalle sue precedenti credenze giacobine, calviniste, gianseniste, liberali… 

Sbuffò nervoso, quel tanto di sbuffo che poteva permettersi. Lui era a posto con la sua coscienza. Lui aveva visto tempi diversi e luoghi vari. Aveva creduto e studiato ed ascoltato filosofi di ben altro spessore che quei borromei d’occasione e donabbondi quando non erano protetti da qualche pio politico.

Certo non era rassicurante che in aprile fosse morto il figlio PierLuigi, così, all'improvviso. Gli avevano detto che era andato a Bergamo ed invece con gli occhi della mente, lo aveva visto subito tra i fantasmi degli altri figli perduti da anni.             

Bergamo... Pierluigi era andato a Bergamo. Forse scappato come quell'altro che conosceva bene, o ricordava di conoscere bene... Come si chiamava? Fermo? No. Renzo? Si Renzo… Era scappato a Bergamo da Milano. Già. Questo lo ricordava bene. Si chiese chissà cosa aveva combinato. Non ricordava. Lasciò perdere. Allora vide arrivare gli altri figli. Gli si affollarono intorno: Giulia, Cristina, Sofia, Clara, Matilde... Parlò con loro. Li vedeva come li aveva amati nei loro anni più belli. Soprattutto Matilde, la più sfortunata, quella per cui lui avrebbe pagato con un bel pò di Purgatorio per non averla assistita negli ultimi minuti di vita. Ne era certo, perché esperto in Morale Cattolica, di cui aveva scritto un famoso saggio.

Fece uno sforzo per poter parlare il più possibile a voce alta.

<< Ma il Perdonatore mi avrà perdonato ogni cosa? >> e rabbrividì d’angoscia.

Come a risposta della sua invocazione, comparvero altre figure alla sua vista esclusiva.

<< Enrichetta...>> mormorò. Una lacrima fu il seguito ed il correre improvviso del cuore << Angelo mio...>> e nel vederla sentii scorrere tutti gli anni più forti e pieni con lei, la sua prima moglie. La scoperta dell'amore, della beatitudine. E quella volta persi l'uno all'altro tra la tumultuante folla di Parigi e della sua disperazione, paura, conversione a Dio come voto, se avesse ritrovata la sposa persa. E la lotta di religione tra lui e la calvinista famiglia di lei e le crisi di coscienza e l'intromissione di preti e di pastori e la perdita mortale di lei, dopo nove figli e 23 anni di vita coniugale… 

Poi, come sovrapponendosi su Enrichetta vide un'altra donna.

<< Teresa cara… >> una seconda lacrima seguì la prima. Vedeva la seconda moglie. Era stato un matrimonio diverso dal primo. Meno beato, ma almeno di allegra compagnia, per lui, così solitario, sempre sofferente di nervi.

Altre ombre si formavano. Altri fantasmi. Li distingueva uno ad uno: Giulia Beccaria, la madre assente e poi, consolatoria e poi invadente. Chissà con chi lo aveva concepito, chissà chi era stato il suo vero padre, che il cognome che portava, più d'uno lo metteva in dubbio. Sciocchezze senza peso. Lui era divenuto gloria nazionale per sé stesso solamente. Lo sarebbe stato anche se si fosse cognomato Verri, Beccaria, Fusella, Mondella o addirittura fosse stato innominato. Ecco... solo non avrebbe mai voluto essere un Imbonati. Avere come padre Carlo Imbonati. Ipotesi repellente: quello là era stato solo un antipatico amante della madre. Per stare con quello, lei lo aveva trascurato, fatto stanziare in collegi sordidi e sozzi. Carlo Imbonati gli aveva lasciato in eredità la bella villa di Brusuglio, è vero, ma questo era il massimo del bene che si poteva dire di lui. 

Sorrise lievemente ora. Dopo la fugace visita dell'amante della madre ecco comparire gli amici: il buon monsignor Tosi, il sicuro padre Degola, l’erudito Claude Fauriel, il simpatico Carlo Porta, il famoso Rosmini.

<< Tommaso! >> esclamò, o meglio, credette di esclamare. All'infermiera ed alla cameriera che si scambiavano opinioni circa la salute dell'infermo, non fu udito più che un mugolio appena più accennato del solito.

<< Tommaso Grossi anche voi qui a trovarmi? Non dovevate incomodarvi… >>

<< Nessun incomodo: sono venuto con d'Azeglio Massimo, vostro genero. >> 

Lui vide il volto sorridente e baffuto dell'amico e collega scrittore e marito della figlia ora lì presente tra gli altri. << Siam qui tutti. Tutti qui per voi, amico mio. Ci hanno detto di presentarci per le sei pomeridiane. Eccoci. Siamo una bella folla. >>

<< Scusate, io non amo la folla, anzi mi fa paura. Mi viene panico e svenimento a stare con troppa gente. >>

<< Ah! Già: ne avevate di nevrosi. >> sorrise il fantasma << Più di tutti noi messi insieme... ed anche degli altri. >>

Gli altri... Intuì. Sorrise e nel farlo sentì sollievo al dolore.

<< Ci sono anche gli altri? >> s'informò.

<< Sicuro che ci siamo. >> rispose un giovane serio, sicuro di sé, con un gran cappello in testa e piumato, secondo una moda non più in voga da almeno duecent'anni.

Allora lui li vide tutti. Proprio tutti. Santi e cattivi. Eroi e vili. Vizi e virtù, passioni ed indifferenza. Sorrise. Sospirò a fatica ma stavolta non sentì nessun dolore, anzi un sollievo, una leggerezza di quel corpo più vicino ai novanta che agli ottanta ormai inutilizzabile.                                                                             

C'erano proprio tutti. Condottieri rinascimentali e guerrieri longobardi. Una regina con le trecce sciolte. E poi cittadini, contadini, ecclesiastici ed altre numerosissime specie di personaggi. Un tale con arnesi da barbiere in mano gli aprì un lieve sorriso.

<< O Giangiacomo Mora! Ci sei anche tu? >> mormorò sorpreso.

<< Grazie d'avermi fatto famoso, di non avermi lascito morto senza postuma giustizia. >>

Lui sorrise a risposta e si sentì un gran bene. Poi, tra la folla di fantasmi, vide anche quello più famoso di tutti. La faccia scura, la divisa eterna, a capo chino lo fissava.

<< Anche voi, Maestà, qui, per me. >>

<< Non so se la vostra sarà vera gloria: ai posteri l'ardua sentenza. >> e lo sciagurato parve accennare un sorriso.

<< Vorrei parlare a tutti, parlare ancora... ma scuserete: io balbetto, non ho eloquio e discorso solenne... >>

Fantasmi, immagini, spettri ed anime restarono in sospeso, aspettando le sue inevitabili parole.

<< Non balbettate più, signor conte, non ve ne siete accorto? >> disse una ragazza carina, con una raggera da sposalizio sulla testa.

Possibile? Lui era incredulo. Ottantotto anni di balbettii passavano in un amen?

<< Prova! >> comandarono i personaggi, fusi in un unico coro.

Lui sentì suonare le sei del pomeriggio. Era la fine di maggio, una bella giornata nella bella Milano, Patria sua.

Provò. Con la voce più alta e sicura che poté mettere insieme.

Declamò come neppure al Senato del Regno d'Italia aveva fatto il giorno del suo insediamento come senatore. O come aveva potuto fare nei discorsi da presidente della regia commissione della lingua italiana.

<< Sparse le trecce morbide sull’affannoso petto, è' giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto o nobiluomini il dì che statuito fu a risolver da voi, dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti, quel ramo del lago di Como, addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo, ei fui siccome immobil, dando il mortal sospiro... >>

Le campane finirono di rintoccare. Le rondini riempivano di strida il cielo. La cameriera e l'infermiera non avevano più lacrime. Guardavano la spoglia, ormai senza quel tanto spirito che l'aveva fatto più che celebre: era una gloria della Patria. Tra poco sarebbero usciti i giornali in edizione straordinaria e da domani tutti i muri di Milano coperti d’avvisi di lutto nazionale. E contemporaneamente sarebbero state a lui intitolate piazze, strade e monumenti.                                                           

Lui lasciava un pò di coscienza nazionale, un capolavoro di fama mondiale, un libro unificante il nuovo Paese e qualche figlio con poca fortuna. Soprattutto lasciava un’Italia che grazie a lui aveva cominciato a conoscere un poco del proprio passato. 

In Milano, 22 maggio 1873 

Professor G.G. Montevenere.

Professor G.G. Montevenere,



Commenti

  1. Bellissimo! Un ulteriore pezzo di avvincente letteratura.

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  2. Ho letto con piacere questa bellissima pagina manzoniana
    Un vero capolavoro
    Grazie Andrea.

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